Prendendo spunto da questa dichiarazione (“L’industria turistica è la più sostenibile al mondo”) resa in più occasioni dal nostro primo cittadino è utile avviare una riflessione critica sul modello di sviluppo fondato quasi esclusivamente sul turismo, interrogandoci sui suoi limiti strutturali, sulle conseguenze a lungo termine e sulla necessità di una visione più equilibrata e lungimirante per il futuro del territorio.
“Industria” e “sostenibilità” sono spesso in contraddizione
Chiamare il turismo industria è già rivelatore: implica una logica produttivista, orientata al profitto, che raramente si concilia con i principi della sostenibilità, cioè equilibrio, cura del territorio, attenzione alle risorse e ai diritti delle comunità locali. L’industria turistica, nella sua versione prevalente, si comporta come un sistema estrattivo: consuma paesaggio, spazio, cultura e relazioni umane per trasformarli in esperienze vendibili.
Ma un’economia che consuma più di quanto restituisca non può essere definita “sostenibile?”
Negli ultimi anni, il turismo è diventato la principale – e spesso unica – leva economica per molte aree italiane, trasformando paesaggi e stili di vita in funzione dell’accoglienza temporanea. Questa dipendenza eccessiva ha creato una monocultura turistica che si è rivelata estremamente fragile, quando è esposta a crisi esterne, incapace in questi momenti di garantire stabilità economica e sociale.
La pandemia da COVID-19 ha rappresentato uno shock: con la chiusura delle frontiere e il blocco dei viaggi, molte località turistiche italiane hanno perso la loro unica fonte di reddito, mostrando l’assenza di alternative economiche e la vulnerabilità di un sistema costruito sulla mobilità e sul consumo veloce. Ma la pandemia non è un’eccezione: ogni crisi globale – sanitaria, economica, climatica – mette a rischio un settore strutturalmente instabile.
Il cambiamento climatico aggrava ulteriormente la situazione: ondate di calore, incendi, scarsità d’acqua e nuovi rischi sanitari – come i casi di dengue che vengono segnalati in varie località anche del nord Italia – rendono sempre più difficile mantenere la vivibilità e l’attrattività delle destinazioni.
Episodi come la crisi idrica di Torri del Benaco (27 e il 28 giugno 2024), dove un guasto tecnico ha causato centinaia di casi di gastroenterite, mostrano quanto un sistema turistico interamente basato sulla fiducia e sull’immagine possa crollare in pochi giorni.

Dal punto di vista occupazionale, il turismo genera soprattutto lavoro stagionale, precario, senza prospettive di crescita o consolidamento delle competenze. I profitti, inoltre, finiscono spesso nelle mani di pochi attori a volte esterni – piattaforme digitali, fondi immobiliari – invece che rafforzare le comunità locali. In situazioni di crisi, l’eccesso di offerta turistica porta a una corsa al ribasso dei prezzi, con una perdita di qualità e sostenibilità del settore. Il modello prevalente diventa quello del “mordi e fuggi”, con visitatori che spendono poco e consumano molto, esercitando una forte pressione sul territorio.
Si assiste così a una massificazione dell’esperienza turistica, dove tutto diventa standardizzato e privo di autenticità. Le località, pur di attrarre visitatori, sacrificano la loro unicità, svuotandosi di identità. Il turismo, in questo contesto, finisce per consumare proprio ciò che lo rendeva attrattivo.
Il fenomeno nel suo complesso porta alla trasformazione degli spazi urbani: le abitazioni diventano alloggi turistici, i servizi si adeguano ai flussi e non più ai residenti, i centri storici perdono popolazione.
Speculazione edilizia e la “riminificazione”: la copia che soffoca l’originale
Il turismo non trasforma solo le economie, cambia il paesaggio. E quando la rendita turistica diventa prioritaria rispetto alla qualità dello spazio vissuto, il territorio smette di essere costruito per chi abita e inizia a essere progettato per chi lo consuma.
Questo è il cuore della cosiddetta riminificazione: un processo estetico, economico e culturale che prende origine dal modello turistico romagnolo – spiagge attrezzate, intrattenimento seriale, urbanizzazione funzionale, speculazione edilizia. Non pare proprio un esempio da prendere a modello per realtà come Lazise.
Borghi lacustri antichi centri medievali, si trasformano in una versione addomesticata e replicabile della “vacanza perfetta”: vialetti pedonali con gelaterie tutte uguali, lungolaghi che sembrano parchi a tema, negozi di souvenir senza alcun legame con la storia locale. Il paesaggio diventa sfondo, la cultura diventa prodotto, la differenza si appiattisce in un’estetica da cartolina.
Dove si costruisce per vendere, non per vivere
La speculazione edilizia è il braccio operativo di questo processo. Ovunque ci sia un potenziale richiamo turistico, si moltiplicano:
- Nuove lottizzazioni residenziali per seconde case con prezzi impossibili, spesso vuote per 10 mesi l’anno;
- Mancanza di logica urbanistica con interventi fatti in aree scollate dal tessuto urbano.
- Villaggi vacanze privati recintati che fanno vita a se stante;
- Stabilimenti balneari, spiagge pubbliche che vengono date in concessione esclusiva, negozi per turisti, nuovi hotel, campeggi-villaggi con la capacita di ospitare interi quartieri di una città.
- Ampliamenti edilizi che vengono tutti chiamati “riqualificazione”.

In molti comuni lacustri, il piano regolatore è stato piegato alle esigenze dell’investitore, spesso ahi noi, speculatore. Si costruisce non per rispondere a un bisogno abitativo, ma per capitalizzare al massimo una proprietà. Questo genera una urbanizzazione effimera, che non si integra con i servizi, che non crea comunità, che non lascia eredità positiva : tutto viene piegato alle esigenze dell’investitore/SPECULATORE.
Campeggi che diventano villaggi: mobil home come forma di urbanizzazione fantasma.
Un tempo, i campeggi rappresentavano un modo “leggero” di vivere il turismo: tende sotto i pini, roulotte in riva al lago, poche strutture fisse e un contatto diretto con la natura. Oggi, molti di quei campeggi si sono trasformati in villaggi turistici ad alta densità abitativa, composti quasi esclusivamente da mobilhome permanenti, posizionate in fila ordinata come piccoli prefabbricati vacanzieri.
A Lazise, in particolare, il fenomeno ha assunto proporzioni visibili e pervasive. Colline e declivi una volta verdi, o liberi da costruzioni, sono oggi occupati da insediamenti turistici che nulla hanno più di temporaneo. Le mobilhome sono dotate di veranda, impianti idrici elettrici e fognari fissi, vialetti pedonali e l’offerta viene completata da piscine, ristoranti, animazione, parcheggi: un’urbanizzazione di fatto, ma senza i vincoli urbanistici di una vera espansione edilizia.
Questa evoluzione ha trasformato il paesaggio: le sponde del lago, da ambiti naturali o agricoli, sono diventate scenografiche quinte abitative stagionali, molte volte affacciate sul lago e organizzate per il turismo di massa. La mobilhome, nata come soluzione mobile e flessibile, è oggi una forma di speculazione immobiliare travestita da campeggio, che sfugge a molte delle regole urbanistiche ordinarie.
Il risultato? Una perdita di naturalità e di autenticità visiva, un impatto ambientale spesso svalutato. La preclusione agli abitanti di aree che un tempo erano parte della quotidianità condivisa attraverso la privatizzazione di spiagge libere diventate stabilimenti balneari a pagamento. Serve allora ripensare la regolamentazione di questi villaggi turistici, definire limiti, criteri estetici, distanze dalle sponde, valutazioni paesaggistiche serie. Perché non c’è nulla di “leggero” nella trasformazione permanente di un territorio fragile.



Politica senza orizzonte: consenso oggi, problemi domani
Il turismo, come ogni settore, ha bisogno di governo, regole, pianificazione. Ma negli ultimi decenni la politica locale ha preferito assecondare il consenso immediato piuttosto che costruire strategie sostenibili. Si è scelto la speculazione, l’evento, il boom, il tutto esaurito, senza interrogarsi sul dopo.
Manca spesso la visione lungimirante, capace di guardare lontano, di investire pensando ai figli, di costruire infrastrutture, servizi, eque condizioni abitative e lavorative. Servirebbe coraggio per dire qualche no oggi, per investire sul futuro. Serve visione, serietà e radicamento.
Inseguire il turista senza pensare al residente significa tradire il territorio e il suo futuro.
Ripensare il modello: diversificare, radicare, rigenerare
Una via d’uscita esiste. Serve:
- Favorire la Diversificazione delle economie locali, sostenendo agricoltura, artigianato, imprese innovative;
- Regolare il turismo, con de-stagionalizzazione intelligente, incentivi al turismo lento e di qualità, e con misure di contenimento dell’eccesso di ricettività. È necessario contingentare i posti letto, sia alberghieri sia extra-alberghieri, per evitare la saturazione del territorio e garantire un equilibrio tra capacità di accoglienza e qualità della vita locale;
- Conservare il paesaggio avendone cura e rispetto.
- Restituire centralità a chi vive nei luoghi, non solo a chi li attraversa;
- Educare alla bellezza, al valore del limite, alla socialità.
Il turismo sarà importante anche nel futuro ma non dobbiamo fermarci a questo.
Vivere di solo turismo è come camminare su una passerella sospesa: basta un guasto, un virus, un’estate troppo calda o una scelta sbagliata per perdere l’equilibrio.
Gli ultimi anni ce lo hanno insegnato con chiarezza: le certezze non sono scolpite nella roccia. Sono fragili, mobili, condizionate da dinamiche globali su cui purtroppo non abbiamo controllo. Ciò che prima sembrava certo — la continuità dei flussi, la stabilità della domanda, la sicurezza climatica — oggi non lo è più.
Grandi sfide ci attendono e, se non saremo capaci di riconoscerle e anticiparle, rischiamo di compromettere il benessere fin qui conquistato con fatica. La lungimiranza non è un lusso, ma una condizione indispensabile per custodire ciò che è stato costruito e rendere migliore il nostro futuro.
Ma questo richiede un cambiamento profondo nel modo in cui pensiamo lo sviluppo e il rapporto con il territorio. Come ammoniva Albert Einstein: “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati.” È tempo di superare l’illusione della crescita senza limiti, e riscoprire il valore del limite come forma di intelligenza collettiva.